3 marzo 2016

La Bohème (1) - Introduzione

Scritto da Christian

La Bohème
Scene liriche in quattro quadri
Libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica
Musica di Giacomo Puccini

Prima rappresentazione: Torino (Teatro Regio),
1 febbraio 1896

Personaggi e voci:
- Rodolfo (tenore), poeta
- Marcello (baritono), pittore
- Schaunard (baritono), musicista
- Colline (basso), filosofo
- Benoît (basso), il padrone di casa
- Alcindoro (basso), consigliere di stato
- Mimì (soprano)
- Musetta (soprano)
- Parpignol (tenore), venditore ambulante
- Sergente dei doganieri (basso)
- Doganiere (basso)
- Studenti, sartine, borghesi, bottegai e bottegaie, venditori ambulanti, soldati, camerieri da caffé, ragazzi, ragazze, ecc.

La quarta opera di Giacomo Puccini, scritta immediatamente dopo il suo primo grande successo (ovvero la "Manon Lescaut"), non è solo uno dei lavori più significativi del compositore lucchese ma anche uno dei titoli più importanti del repertorio operistico italiano, con brani davvero conosciuti da tutti (si pensi solo a "Che gelida manina"). Il soggetto è tratto dal libro di Henri Murger "Scènes de la vie de bohème" (1851): non un vero e proprio romanzo, ma una raccolta di racconti d'appendice con un gruppo ricorrente di protagonisti, ambientati nel quartiere latino di Parigi e pubblicati inizialmente su una rivista letteraria dal 1845 al 1849. Proprio queste storie avevano contribuito a rendere popolare il concetto degli artisti bohémiens: il nome fa riferimento alla Boemia, la regione del Centro Europa che all'epoca si associava generalmente agli zingari e ai rom, e dunque – per accostamento di idee – a uno stile di vita "libero" e non convenzionale, senza legami permanenti di famiglia, di lavoro o anche di affetti. Nell'immaginario comune (ma anche nella realtà!) si trattava di poeti, musicisti o pittori che vivevano alla giornata senza essere schiavi del denaro (o perché non ne avevano, o perché dissipavano subito quel poco che guadagnavano, come se la povertà fosse un tratto volontario della loro esistenza). Nella seconda metà dell'ottocento, molti circoli di artisti conducevano una vita simile, addensandosi nei quartieri più poveri e socialmente inferiori delle grandi città (in particolare Parigi, ma non solo): Murger, nel raccontare le loro storie, si rifaceva probabilmente anche a episodi autobiografici o comunque a personaggi che sia lui che i suoi lettori (quelli delle riviste su cui pubblicava) dovevano aver conosciuto bene.

Per redigere il libretto, Puccini scelse Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, con i quali aveva già collaborato nella "Manon Lescaut". I due poeti selezionarono diversi episodi del testo di Murger, unificarono alcuni personaggi in uno solo (è il caso di Mimì: il personaggio dell'opera riunisce in sé quelli di Francine e della stessa Mimì del romanzo originale), e costruirono una trama con un inizio, uno sviluppo e una fine, essenzialmente incentrata (come la versione teatrale scritta dallo stesso Murger e da Théodore Barrière nel 1849) sulla storia d'amore fra Rodolfo e Mimì. Un contrasto fra Illica e Puccini sorse quando il compositore decise di eliminare uno degli atti (o "quadri", come sono denominati nel libretto) previsti: avrebbe dovuto raccontare una festa all'aperto, nel cortile della casa di Musetta, dove sono stati accatastati i mobili del suo appartamento, da mettere all'asta perché il protettore della ragazza si era rifiutato di pagarle ulteriormente l'affitto. Durante la festa, Mimì conosce un giovane Visconte e si mette a ballare con lui una quadriglia, scatenando la gelosia di Rodolfo (di cui rimarrà un riferimento nel terzo quadro: "Un moscardino di Viscontino..."). Da questo episodio sarebbe seguita la loro separazione. Dei quattro atti poi effettivamente messi in scena, invece, il primo e l'ultimo sono abbastanza debitori ai racconti originali dello scrittore francese, mentre il secondo e il terzo sono in gran parte farina del sacco dei due librettisti.

Contemporaneamente a Puccini, anche un altro compositore italiano, Ruggero Leoncavallo – allora già celebre per "I pagliacci" – aveva scelto il testo di Murger come soggetto di un'opera (anche perché il libro si era da poco liberato dai diritti d'autore). Quando si venne a sapere che entrambi stavano preparando una "Bohème", ne scaturì quasi una lite. Leoncavallo accusò Puccini di avergli rubato l'idea, mentre il compositore toscano affermò che era al lavoro su quel soggetto già da tempo. Nessuno dei due rinunciò a portare a termine il proprio lavoro, dando così vita a una sfida a distanza ("Il pubblico giudicherà"), fomentata anche dalla stampa e dalle rispettive case editrici, Sonzogno e Ricordi. "La Bohème" di Puccini fu completata nel dicembre 1895 e fu rappresentata per la prima volta due mesi dopo, riscuotendo un grande successo di pubblico (la critica inizialmente fu fredda, ma cambiò presto idea). "La Bohème" di Leoncavallo (in cui il ruolo di Rodolfo è cantato da un baritono e quello di Marcello da un tenore, il contrario cioè della versione pucciniana) ebbe la sua prima rappresentazione oltre un anno più tardi, nel maggio 1897, ma finì con l'essere oscurata da quella del rivale e cadde presto nel dimenticatoio. Nel 1913 Leoncavallo provò a riproporla in un'edizione riveduta, con il titolo di "Mimì Pinson", anche stavolta senza successo.

Per catalogare tutte le opere del teatro lirico e di prosa che in ogni tempo sono state scritte sullo stesso soggetto, sovente in aperta disfida estetica e professionale fra i rispettivi autori, non basterebbero tomi ponderosi. Perciò non ci sarebbe di che stupirsi se Puccini e Leoncavallo avessero pensato proprio nello stesso tempo alle "Scènes de la vie de Bohème" di Henri Murger, argomento che, in piena fase di affermazione del ‘verismo’ nel melodramma, era particolarmente adatto a riscuotere il massimo successo (si trattava, fra l'altro di un’opera d’attualità per la scena italiana di allora, che viveva col consueto ritardo situazioni artistiche che altri paesi avevano già sorpassato).
(Michele Girardi)
Pur avendo avuto una gestazione lunga e travagliata a livello di costruzione dell'impianto drammatico, con continui scambi di vedute fra Puccini e i suoi librettisti, "La Bohème" andò in scena nel 1896 essenzialmente già nella sua versione definitiva. E nonostante il difficile lavoro di scrittura e di limatura dei dettagli, il risultato risulta incredibilmente agile e leggero, spontaneo e realistico, anche nel suo continuo alternare momenti di comicità spensierata, di malinconia o rimpianto, di intimità quotidiana e prosaica, di tristezza struggente e dolorosa. Un vero e proprio affresco, o meglio uno "squarcio di vita" contemporaneo, che riflette in parte anche l'esperienza di Puccini nei suoi anni di studio al Conservatorio di Milano, quando viveva in una soffitta non dissimile da quella dei suoi personaggi, o anche la sua frequentazione di un gruppo di pittori macchiaiuoli che aveva conosciuto presso il lago di Massaciuccoli, a Torre del Lago, la località dove aveva scelto di ritirarsi proprio in quegli anni per poter scrivere musica senza essere distratto dalla mondanità della città. Uno di questi artisti, Ferruccio Pagni, fu fra l'altro autore più tardi di uno dei primi libri biografici sul compositore, nel quale racconta molti "dietro le quinte" del periodo in cui fu composta "La Bohème". Ecco, per esempio, come Pagni narra il momento in cui l'opera venne conclusa:
Quella notte, mentre noi si giocava, Giacomo era alle ultime battute.
– Silenzio, ragazzi, – disse a un tratto – ho finito!
Lasciammo le carte, ci accostammo a lui...
– Ora vi faccio sentire, rimettetevi a...
ceccia! Questo finale è buono...
Attaccò dall’ultimo canto di “Mimì”: “
Sono andati...
Via via che Puccini suonava e cantava, quella musica fatta di pause, di sospensioni, di tocchi lievi, di sospiri, di affanno, pervasa da una malinconia sottile e da un’intensità drammatica profonda ci prendeva, e vedevamo la scena e tutto sentivamo quell’umano tormento, poichè ivi veramente la espressione è tornata alle origini, alla sua sostanza eterna: il Dolore. Quando caddero gli accordi laceranti della morte, un brivido ci percosse e più nessuno di noi seppe frenare le lacrime. La soave fanciulla, la nostra “Mimì” giaceva, fredda, sul povero lettuccio e più non avremmo udito la sua voce tenera e buona. La visione ci apparve: “Rodolfo”, “Marcello”, “Schaunard”, “Colline” erano le nostre figure o noi le loro reincarnazioni, “Mimì” la nostra amante di un tempo o di un sogno, e tutto quello strazio il nostro strazio stesso.
Anche la musica aderisce con grande naturalezza all'azione, accompagnando i vari episodi con una ricchezza sonora e sinfonica di un'orchestra ampia e tuttavia capace di non sovrastare le emozioni o i sentimenti dei personaggi quando questi devono balzare in primo piano. Ispirandosi alla lezione dell'ultimo Verdi (il "Falstaff"), Puccini trova un grande equilibrio fra forma musicale e azione scenica, senza sacrificare alle necessità della prima quelle della seconda. E come in Wagner, allora ormai imprescindibile (ma dal quale Puccini già comincia a prendere le distanze, in cerca di una via tutta sua), si riconoscono leitmotiv e si smarrisce la divisione in numeri chiusi, dando vita a "un continuum sonoro modellato sulle specifiche esigenze drammatiche del soggetto", anche se alcuni brani (le arie di Rodolfo e Mimì nel primo atto, il valzer di Musetta, la "Vecchia zimarra" di Colline) possono naturalmente essere isolati dall'insieme. Interessante anche la struttura di fondo dell'opera: i primi due quadri sono spensierati e allegri, gli altri due sono pieni di nostalgia e dolore; inoltre il primo e l'ultimo, assai intimi, si rispecchiano simmetricamente l'uno nell'altro (sono ambientati nella stessa soffitta), mentre i due centrali sono più dinamici e mostrano i nostri personaggi nelle strade, all'esterno, fra la gente, inseriti nel milieu sociale, vivo e brulicante, di Parigi.


Alcune delle incisioni più celebri:















Link utili:

Articolo su Wikipedia in inglese
Articolo su Wikipedia in italiano
Saggio di Michele Girardi [pdf]
Libretto completo
Partitura