10 maggio 2014

Don Giovanni (41) - Libertà e confronto col padre

Scritto da Marisa

Si è molto parlato di Don Giovanni quale campione e paladino della libertà, facendone una specie di eroe popolare che indica attraverso la celebre frase “Viva la libertà!”, ripetuta durante la festa quasi come uno slogan, la via verso l'emancipazione dal feudalesimo ancora dominante e dal sovrapotere delle classi nobiliari ed ecclesiastiche. Indubbiamente la rappresentazione dell'opera nel 1787, con appena due anni d'anticipo dalla rivoluzione francese, e il precedente lavoro “Le nozze di Figaro”, in cui un semplice popolano, servo del Conte, osa ostacolare i piani del nobile padrone e trionfare sull'ingiusto diritto feudale, indicano che il clima stava cambiando e Mozart sapeva da quale parte stare. Che un nobile come Don Giovanni, poi, venisse punito e sprofondato all'inferno non poteva piacere alla corte viennese del tempo, e questo ha contribuito alla rapidità con cui le rappresentazioni furono sospese, nonostante il grande successo ottenuto. Sembra infatti che l'imperatore Giuseppe II ebbe a dire che: «Il Don Giovanni non è pane per i denti dei miei viennesi».

Bisogna però tenere separate le tendenze libertarie di Mozart dal comportamento anarchico e spregiudicato del suo eroe. Aprendo la sua casa a tutti e permettendo loro di divertirsi, Don Giovanni sembra andare in una direzione democratica di lungimiranza sociale e politica. Ma si tratta veramente di questo? Quale libertà realmente rivendica? E perché intendo parlarne insieme al suo rapporto col padre-Commendatore?

Indubbiamente lo vediamo muoversi con estrema libertà alla ricerca dei suoi piaceri e cercare di prenderli in ogni modo, usando anche il suo rango (“La nobiltà ha dipinta negli occhi l'onestà”) e la sua ricchezza (“Giacchè spendo i miei danari, io mi voglio divertir!”), ma è disposto a concedere anche ad altri qualcosa solo se non lo ostacolano e gli fanno da cornice e se contribuiscono a rallegrare le sue feste fornendo materia prima per le sue conquiste. Lo vediamo poi, senza alcuno scrupolo, scaricare su Leporello ogni conseguenza negativa, quando le cose si mettono male, salvo poi rabbonirlo usando il suo potere economico, ed usare verso Masetto una costrizione anche fisica, sempre in grazia del suo stato sociale di nobile, per allontanarlo e lasciarlo libero di attuare le sue mire su Zerlina.

Il problema della libertà per Don Giovanni non si pone, perché essa non è qualcosa da conquistare o un valore per cui lottare; per lui è qualcosa di ovvio ed è abituato a fare quello che gli piace senza alcuno scrupolo. La sua libertà non si ferma, come predicano i filosofi, dove inizia la libertà dell'altro, ma quella dell'altro deve finire quando intralcia la sua. Non si tratta di immoralità ma di amoralità, in quanto la categoria morale per lui semplicemente non esiste, e questo lo pone completamente al di fuori della legge del padre, come se l'istanza superegoica, che si forma proprio dal suo confronto, non si fosse formata neanche in nuce. E qui incrociamo il problema del padre e dobbiamo riconoscere in Don Giovanni un essere appartenente completamente allo stadio psicologico che precede ogni confronto-scontro e successiva riconciliazione col padre; per dirla con Freud, egli è un “bambino perverso polimorfo”, completamente dominato dallo stadio del raggiungimento del piacere, antecedente al momento edipico in cui si comincia a realizzare che c'è un adulto che sbarra l'automatismo del piacere: il padre. Egli, in breve, fa quello che vuole – ed è questa la sua libertà – perché figlio prediletto della madre che concede tutti i capricci, senza dover mai rendere conto al padre.

In questa situazione di totale assenza di un padre normativo, è naturale che compaia, come antagonista, una figura paterna altrettanto estrema e rigida come il Commendatore, un rappresentante inflessibile e punitivo di cui Don Giovanni in realtà farebbe proprio a meno: nell'incipit dell'opera non vuole lo scontro e continuerebbe la sua fuga, se non fosse fermato e costretto al duello. Anche nella scena del cimitero, non solo non ha alcun rimorso per il delitto commesso, ma risponde al grave fenomeno dell'animazione della statua, che fa tremare Leporello, con la spavalda superficialità del bambino abituato a burlarsi di tutto perché non fa differenza tra i vari piani della realtà. Nell'ultimo e fatale incontro poi, invitato a pentirsi, lo sentiamo pronunciare la famosa frase “A torto di viltate tacciato mai sarò”. Questa può sembrare una dichiarazione di grande coraggio e di coerenza eroica, ma, a ben guardare, è la semplice riconferma della sua caparbietà e l'impossibilità di accedere a qualsiasi cambiamento che preveda il riconoscimento dei propri errori. Lo abbiamo visto per tutta l'opera uccidere, spergiurare, mentire, mettere a rischio la vita di Leporello per cavarsi d'impaccio... ed ora sembra che, pur di non fare la figura del vigliacco, non possa arretrare di fronte alla morte.
In realtà egli non ha ancora capito di che tipo di invito si tratti, quando offre la mano alla terribile statua ed afferma “Ho fermo il core in petto: non ho timor, verrò”, perché alla morsa ormai inesorabile lo sentiamo invece gridare di meraviglia e terrore: “Da qual tremore insolito sento assalir gli spiriti! Donde escono que' vortici di foco pien d'orror?...”, come se avesse fino alla fine pensato ad uno scherzo e realizzata la terribile realtà solo quando essa lo ha già afferrato.

Questo è del tutto in linea col modello archetipico che lo possiede. Sia Eros che Dioniso infatti non hanno niente a che fare con la morale e sono ambedue legati al dominio della “Grande Madre” orgiastica, ampliandone lo stragrande potere. In particolare Eros diffonde il desiderio erotico-sessuale in tutti gli esseri, non lasciando immune dai suoi strali impertinenti nemmeno il Padre Zeus, mentre Dioniso, che partecipa direttamente ai misteri Eleusini di Demetra e Core incentrati sulla “grande Madre”, guida il carro sfrenato delle Menadi insieme ad Arianna che è anch'essa una versione ringiovanita della grande dea mediterranea.

Michel Cazenave e Roland Auguet, due psicanalisti junghiani, hanno dedicato un saggio ai cosiddetti “imperatori folli” (Caligola, Nerone, Commodo, Eliogabalo, ma passando da Alessandro, con la sua pretesa di essere figlio del dio Ammone, e Cesare, diretto discendente di Venere...), rintracciando il comune sfondo archetipico del loro comportamento nell'influenza e nella fascinazione della cultura delle grandi dee madri dell'oriente, in cui la sacralità è fortemente intrecciata con la sessualità. Il potere imperiale, anziché aumentare il senso di responsabilità verso lo stato e il popolo, responsabilità di stampo paterno, ha accelerato l'onnipotenza irresponsabile di chi, sentendosi il “figlio divino” e quindi dio egli stesso, può permettersi tutto saltando ogni controllo e limite. L'amore per il lusso, le feste, gli spettacoli teatrali e circensi sono il corollario inevitabile, attirando prima l'adorazione populistica dei sudditi e, subito dopo, la rivolta cruenta guidata da rappresentanti del senato, la classe “paterna”, umiliata e oltraggiata. A suo modo Don Giovanni ripete lo stesso schema – anche se in tono minore, perché il suo potere non è quello degli imperatori romani e la musica di Mozart ce lo rende oltremodo piacevole – e, come loro, cade vittima della punizione che il principio paterno offeso e umiliato reclama.

Strettamente legata al quadro archetipico della costellazione della Grande Madre è la coloritura sessuale di Don Giovanni, che, nonostante la sua grande attività, si può collocare paradossalmente nell'ambito dell'impotenza, per lo meno in quell'aspetto della difficoltà ad avere un rapporto duraturo e incapacità di amare, un “mordi e fuggi” che concretamente può esprimersi nell'eiaculazione precoce e che accomuna, nell'impossibilità di fermarsi con una donna, tutti i figli che rimangono in balia del fascino dell'Eterno Femminino che solo nella Dea ha il suo fondamento.