10 marzo 2012

L'Orfeo (11) - Il ritorno e la morte

Scritto da Marisa

Dopo che Orfeo si è voltato, Ermes non può che riaccompagnare definitivamente Euridice nel regno dei morti: questa scena è diventata l'immagine più commovente di ogni addio, raffigurata tante volte nelle stele attiche dei luoghi di culto dei defunti. E Orfeo, tornato solo, si chiude prima nel suo dolore, in profonda elaborazione del lutto, e poi si apre a una nuova fase, perché dal viaggio nell'oltretomba torna profondamente trasformato; e come potrebbe essere altrimenti per chi ha visto l'altra faccia della vita? L'iniziazione è compiuta e i nuovi canti saranno ormai la testimonianza della “sapienza” acquisita con tanto dolore.

Solo chi già alta levò la lira
anche tra ombre
può nel presentimento trarre
lode infinita.

Solo chi ha gustato coi morti
il loro papavero
anche il suono più lieve
mai riperderà.
Così recita Rilke nel nono sonetto, testimoniando come Orfeo non solo non abbia perso l'alta maestria, ma il suo canto si sia affinato vertiginosamente perché ora conosce sia il mondo dei vivi che quello dei morti, le emozioni e le esperienze di entrambi i regni. D'ora in poi infatti si dedicherà a quell'impresa eccezionale per lo sviluppo dello spirito umano che è la trasmissione dei misteri orfici; ma di questo ci occuperemo in un post successivo.

Proseguiamo ora con l'ultimo atto della vita di Orfeo: la morte. È stato detto che Orfeo, dopo il ritorno dall'Ade, disdegnasse la compagnia delle donne, circondandosi solo di uomini ai quali trasmetteva gli insegnamenti segreti (a lui viene fatta risalire anche l'omofilia), e che per questo fu punito dalle Menadi offese (o Baccanti) con una morte violenta, lo smembramento. Nell'opera di Monteverdi alla crudezza del mito originario viene sostituita una fine più gentile, anzi gloriosa, in armonia con lo spirito dei tempi, che ricercava nella mitologia un'atmosfera arcadica e una riappacificazione finale di facile lettura. Far intervenire direttamente Apollo, per di più riconosciuto qui come padre, sbilancia tutta l'opera di Orfeo in senso apollineo, mettendo in ombra la parte dionisiaca e la sua vera originalità che si colloca proprio nel loro punto d'incontro.

Se è vero che non cercò altre donne per sostituire Euridice e che la sua fine fu lo smembramento, come leggere tutto questo, andando oltre la superficie del mito, come si fa con i sogni cercando di far parlare le immagini stesse e avvicinarsi a un significato che abbia senso per la coscienza e costituisca un aiuto per il suo ampliamento?
Voltandosi ed accomiatandosi da Euridice, Orfeo rinuncia alla proiezione della propria “anima” sulla donna per reintegrarla in sé stesso: Euridice non è più la donna reale con cui condividere gioie e dolori, ma viene riassorbita nell'unità interiore; diventa la donna “dentro”, l'anima interiorizzata; processo che secondo John Layard - uno dei più autorevoli allievi di Jung - è il vero scopo di ogni trasformazione attraverso l'innamoramento. Si tratta in definitiva di ricostruire dentro di sé l'androgino, l'unità originaria, a cui però si può ritornare solo dopo un difficile e lungo percorso. L'immagine finale del processo alchemico, il Rebis (unione di re e regina), e quella di Ardhanarishvara (Shiva e Parvati fusi insieme) costituiscono validi esempi dell'armonia finalmente raggiunta. Ogni innamoramento rappresenta la proiezione di una parte della propria anima (nessuna donna è in grado di rappresentarla completamente): a seconda del momento evolutivo, si passa dalla madre ad altri aspetti (Eva, Elena, Maria e Sofia sono i quattro stadi dell'anima secondo Jung), fino a ritirare la proiezione, così necessaria in prima istanza, e completare il proprio percorso.
Quindi Orfeo non è più attratto da nessun'altra donna perché è ormai unito interiormente con l'Euridice interna, e nella sua pienezza può soltanto dedicarsi all'arte e alla ricerca spirituale. Non altrimenti Dante, dopo la morte di Beatrice, diventa il suo “fedele” e, assistito da lei, compie la grande impresa che “fa tremar le vene e i polsi”. Petrarca farà la stessa cosa eleggendo Laura come sua “musa” e non cercando più altre donne.

Ed eccoci all'atto finale: la morte ad opera delle Baccanti, le sfrenate seguaci di Dioniso che celebravano i loro riti selvaggi sui monti del Pangeo. Esse lo assalirono e lacerarono il corpo smembrandolo e disperdendone i pezzi, come facevano in pieno furore estatico con gli animali. Secondo il mito, la testa di Orfeo fu portata dai flutti del mare sino alla foce del fiume Melete, presso Smirne, dove più tardi avrebbe avuto i natali Omero; oppure, secondo un'altra versione, la testa giunse cantando alle coste dell'isola di Lesbo, patria di sommi poeti quali Saffo e Pindaro. La lira fu invece portata in cielo da Apollo e risplende nella sua costellazione, perché nessuno dopo di lui fu più degno di possederla.

Come leggere questa morte? Io direi nel modo più semplice: il corpo, in quanto materia organica, viene distrutto come quello di ogni animale e riconsegnato alla terra, ma le energie mentali e quelle spirituali (la testa e la lira) sono indistruttibili ed alimentano e ispirano tutti coloro che riescono a mettersi in contatto con le loro vibrazioni...
Chi sono infatti le Baccanti se non le rappresentanti di Dioniso, nella sua forma di divino distruttore, la forza segreta della natura che continuamente disgrega la materia organica per preparare nuove forme? Come la sanguinaria Kalì rappresenta l'azione distruttiva di Shiva che interviene sul ciclo della vita, così le Baccanti, le furiose Menadi invasate dal dio, nelle loro danze sfrenate celebrano la vita attraverso la morte e viceversa. Mi sembra infatti del tutto pretestuoso il tema della vendetta delle donne o della punizione di Dioniso perché il poeta-veggente gli preferiva Apollo (cosa non vera, visti i contenuti dei misteri orfici tutti centrati su Dioniso Zagreo). Queste sono motivazioni a cui si ricorre per cercare giustificazioni a qualcosa che altrimenti ci si presenta troppo crudele e irrazionale. Non ricorriamo forse a simili pseudo-spiegazioni (invidia e gelosia di altri, persino di forze soprannaturali) di fronte alla morte giovane e di chi ha talento ("gli angeli lo hanno rapito perchè era troppo bello e buono per questa terra")? La terribile furia che agita le Menadi e il loro accanirsi sul corpo di Orfeo non ha bisogno di altre motivazioni se non la drammatica lotta tra la vita e la morte, la fatica che fa il corpo dibattendosi nell'assalto fatale. Di questa lotta per ricondurre il corpo a pura materia e dell'indistruttibilità delle energie mentali e spirituali (testa e lira) parla Rilke nel ventiseiesimo sonetto:
...Non ci fu una che a te potesse distrugger testa e lira.
Eppur lottarono frenetiche, e tutte le acuminate
pietre che verso il tuo cuore vennero scagliate
dolci si fecero, e per te capaci divennero di udire...
Orfeo dunque continua ad addolcire attraverso il canto, che rimane vivo, tutte le forze, anche le più indurite che si aprono all'ascolto, dando senso persino all'irreparabile aggressività della morte.


2 commenti:

giovanni ha detto...

L’interpretazione di Marisa dell’episodio di Orfeo ed Euridice mi ha molto ma molto interessato in quanto io ne avevo dato un’interpretazione opposta., dovuta ad una lettura del mito legata alla mia personale esperienza. Trovo quella riportata da Marisa veramente suggestiva. Perché è troppo attento all’ascolto, Orfeo si volta e rinuncia all’amata per il bene di Euridice e per la sua evoluzione. La trovo non solo legittima ma anche “bella”.E la condivido.
La mia invece si riferisce, al contrario, ad uno scarso ascolto di Orfeo. Credo che siano legittime entrambe, perché il mito è polisemantico.
Questa è la mia.
Poiché nel mito tutto ha un significato, io non ero mai riuscito a capire bene il perché di questo divieto. Forse per insegnare a moderare gli impulsi passionali? Interpretazione troppo banale, troppo moralistica, direi, troppo cristiana. Come del resto ha fatto notare anche Marisa.
Dopo averci un po’ pensato mi sono dato questa interpretazione, evidentemente legata al pensiero junghiano.
Euridice è la sposa, quindi rappresenta l’anima di Orfeo, poiché nel femminile, come si sa, l’uomo proietta la sua anima.
Allora ho pensato che : “Se vuoi ricuperare la tua anima, non la puoi guardare con occhi umani”, con gli occhi che sono strumenti della ragione, in quanto l’organo della vista è l’organo del vedere, quindi del misurare, dell’analisi, dell’estroversione!
Se vuoi ricuperare la tua anima, non la puoi guardare con occhi umani.
L’anima la puoi solo ascoltare!
Se Orfeo si fosse posto più nell’ascolto e avesse sentito la leggerezza dei passi di Euridice che lo seguiva, quasi impercettibili, essendo ancora in parte ombra, non si sarebbe girato.
Ci sono realtà che gli occhi della ragione non possono vedere. Le puoi solo ascoltare.
Fides ex auditu ( S. Paolo).
Bello Rylke nei sonetti ad Orfeo : “Tu creasti per loro un tempio nell’udito”.

Inoltre molto interessanti e istruttive ( almeno per me) tutte le considerazioni sulla nascita dell’orfismo.


Marisa ha detto...

Caro Giovanni, il fine ultimo di "recuperare la propria anima", come hai benissimo intuito è ottenuto da Orfeo proprio rinunciando alla Euridice terrena e quindi voltandosi, che è la condizione posta per la rinuncia. Tutto il percorso agli inferi serve a prendere contatto con la morte e accettare la sua ineluttabilità. Sarebbe stato un lieto fine assurdo riportare Euridice in vita e continuare il matrimonio, come se niente fosse... Persino il Cristo non risorge per continuare la vita come prima, ma il suo è un corpo trasfigurato e quindi spiritualizzato, perchè veramente "nessuno" può ritornare in vita.
Orfeo che si volta è inoltre, per me, il simbolo della coscienza dell'uomo rivolta al passato, alla memoria da cui trae profondità ed ispirazione per futuro.
Anche la moglie di Lot trasgredisce e si volta diventando così una statua di sale, ma il suo gesto traduce un eccesso di nostalgia e di rimpianto (il sale!), un soffermarsi troppo sul passato, mentre Orfeo trasformerà tutto in "nuovi canti" e nell'orfismo.